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Le Scuole Iniziatiche dell'Antica  Saggezza

MARTINISMO

                                
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LA MORTE

di

GIOVANNI ANIEL S.I.I. (FABRIZIO MARIANI)

GRAN MAESTRO PASSATO DELL'ORDINE MARTINISTA UNIVERSALE

 

È ovvio che non si può prescindere di parlare del rapporto tra tempo ed eternità senza affrontare il problema della morte fisica. Non è un mistero che l'Occidente affronti il problema della morte in una maniera diversa - e più drammatica - dell'Oriente: se ad un occidentale di media cultura si chiede che cosa si contrapponga al concetto di morte, egli quasi sempre risponde «la vita», mentre un orientale dello steso livello culturale (o anche inferiore) risponderà che alla morte si contrappone la nascita. Per i ricercatori occidentali della verità è imperativo un approccio al problema che sia il più possibile libero dai condizionamenti della nostra cultura e della nostra eredità genetica e che affondi piuttosto le sue radici in una coerente e rigorosa razionalità profonda del vivere.

In realtà abbiamo tutti gli strumenti per liberarci della paura della morte, ma occorre subito premettere che questa liberazione non ci svincola, non può svincolarci, dal dolore che si accompagna alla morte di una persona cara. Quella persona se n'è andata per sempre da questo piano di esistenza, per sempre ha deposto quella sua ultima, irripetibile incarnazione, con tutto quello che di legami e di affetti - familiari e amichevoli - vi era connesso e noi sappiamo (non: immaginiamo; sappiamo) che per tutto il tempo che durerà il nostro viaggio terreno non ci sarà più data la possibilità di incontrare quella persona. Come non soffrirne? perché non soffrirne? D'altra parte, paradossalmente, quello stesso motivo che è all'origine del dolore può, se lo vogliamo, aprirci la strada della liberazione dalla paura (che, va sottolineato, è quasi sempre paura della propria morte, della propria distruzione fisica, della cancellazione possibile, infine, della propria individualità). E qui ci soccorre una riflessione che addirittura appare ovvia: scoperta dunque, davanti alla spoglia esanime dell'altro, l'impermanenza della forma altrui (e non si può non convenire sul concetto di impermanenza della manifestazione), si è costretti ad accettare come un reale dato di fatto anche la propria impermanenza, o, quanto meno, la propria impermanenza fisica. Mi accade dunque di scoprire che la parte di me che dice «io sono» - che afferma, alla maniera di Heideger, il suo «Esserci» e che oscuramente avverto indistruttibile (dunque sacra) non è circoscritta al corpo. Debbo andare più in profondità e scopro, d'altra parte, che anche le emozioni («io soffro», «io gioisco», «io amo») sono talmente cangianti e mutevoli che non possono essere ricondotte ad una centralità permanente, a quell'«io sono» che, nascondendosi ancora più in profondità, continua ad affermare la sua stabile presenza. E tuttavia, .anche se la sfera emotiva (l'astrale degli occultisti) è caduca e peribile, le cose non sembrano andare meglio per quanto attiene al mondo del pensiero, astratto o concreto che sia: il cosiddetto corpo mentale, infatti, è strettamente connesso con la mente, cioé con il modo di funzionare di questo peribile cervello che fa parte di questa attuale incarnazione, un corpo mentale che è esposto al turbine di pensieri di ogni genere, i quali vanno e vengono senza un attimo di requie e di apparente continuità. Bisogna andare dunque più in là, oltre queste suddivisioni (peraltro anch'esse apparenti) di quella totalità mortale che definiamo come «uomo» per scoprire che, oltre la struttura fisica, oltre le emozioni, oltre il pensiero, permane, in questa creatura autocosciente, la percezione intuitiva del suo essere sempre quì e altrove, su tutti i livelli, percezione che si è soliti indicare, per l'appunto, con la locuzione «Io Sono». Percezione intuitiva, si è detto, in quanto l'approccio a questa realtà è possibile soltanto attraverso l'unico strumento indistruttibile del quale l'uomo, così come lo conosciamo, disponga, cioé l'intuizione, il cui etimo, come è noto, può essere letto come «intus ire», cioé andare dentro, oppure «in tueri», cioé vedere dentro. Quel «dentro» che è il sancta sanctorum di ogni uomo.

Si dice, di solito, che abbiamo paura di ciò che non conosciamo e che la paura viene meno, o si riduce molto, una volta che l'oggetto della paura sia stato individuato. Nel caso della paura della morte, il discorso è diverso: l'analisi che abbiamo fin quì tentato ci porta infallibilmente alla nostra radice ultima, cioé al segno che ci rende indistruttibili, permanenti e immortali e che è, a guardar bene, l'unico elemento del quale disponiamo, a livello cosciente, per proiettarci in un avvenire senza limiti e in una continuità ininterrotta di coscienza. Attraverso l'intuizione - che può essere sviluppata ed ampliata con opportune tecniche di meditazione - percepiamo infallibilmente il flusso di quella Vita Una che permette agli orientali di esprimersi in termini di alternanza per quanto concerne la nascita e la morte; la Vita Una, inoltre, è l'altra faccia di quella Volontà suprema che regge i mondi, Volontà che, a sua volta, è una con la Legge che regola armoniosamente ogni aspetto della manifestazione, dai meccanismi del DNA alla fuga delle galassie da un ipotetico centro del cosmo. Il Nostro Riparatore, Gesù, indica una strada per riflettere e, soprattutto, per capire: nell'orto di Getsemani sperimenta sulla sua pelle di uomo la paura della morte e prega il Padre affinché allontani da lui l'amaro calice dell'angoscia; ma subito dopo quanto in lui vi è di indistruttibile e di imperituro trova la via della salvezza dalla paura nell'armonizzazione della propria volontà con la Volontà cosmica, meglio, nell'annullamento della volontà parziale in quella universale («Però non la mia volontà sia fatta, ma la Tua»).

 

Da Atti del Congresso Martinista - 1993 - Edizione riservata

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