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Le Scuole Iniziatiche dell'Antica  Saggezza

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La meditazione in Abulafia

 di Mauro Caccio

Il documento che segue è un lavoro di Mauro C. pubblicato sul numero 4 del Trimestrale di Studi Tradizionali Luz 1999.

 

Lo scopo ultimo? Sciogliere i nodi che legano l'anima, facendola tornare alla sua prima origine che è unitaria, priva di duplicità e che comprende in sé la molteplicità.

 

Il percorso mistico di Abraham Abulafia si caratterizzò per la sua incessante ricerca, appassionata al punto da condurlo ad avventurarsi in pratiche non comuni alla tradizione ebraica. Mentre nella corrente principale della qabalah separati infatti ci si limitava, di norma, a esporre la struttura simbolica della conoscenza mistica, Abulafia fu convinto sostenitore di una concezione più totale che conducesse il devoto verso il superamento dell'ordinario stato di coscienza.

Nato a Saragozza nel 1240, iniziò ben presto una serie di peregrinazioni che domineranno, fino a caratterizzarla, la sua vita. A vent'anni partì per la terra d'Israele, alla ricerca del mitico fiume Sanbatyon, mentre nel 1270 passò in Spagna e in Italia. Nel decennio successivo si recò a Capua e poi a Roma, nel tentativo di essere ricevuto dal papa. La sua aspirazione a convertire il pontefice all'ebraismo gli costò una minaccia di rogo, scampata all'ultima ora. Nel 1288 fu costretto all'esilio, e si rifugiò nell'isola di Colino, nei pressi di Malta.

Numerosissime le opere scritte da Abulafia, sebbene quasi tutte siano rimaste inedite fino la secolo scorso: La ragione di tanta sfortuna editoriale è da ricercarsi nel carattere personale e spesso apparentemente eccentrico del suo pensiero.

 

Forse può tornare utile ricordare - o meglio: ricordarci - quante e quali tappe aspettino chi si avvia in un cammino di cosiddetta realizzazione iniziatica. Si comincia col tentare di portare il gruppo subconscio/inconscio a livello dell'ordinaria coscienza, ossia si pongono in essere tecniche cognitive atte ad esplorare in toto la parte più oscura della propria psiche.   In un'ulteriore fase si dovrebbe pervenire alla consapevolezza della propria Supercoscienza, dopo aver palesato a sé - vale a dire esposto - i propri difetti, vizi e legami (ovvero i dèmoni personali) ed averli risolti e dopo aver amplificato le proprie migliori caratteristiche e tendenze (il Genio). In pratica, dunque, anche il Superconscio viene portato al livello del Conscio.  C'è un ultimo momento - quello cui tende la tecnica meditativa di Abulafia, cui sicuramente allude quella della Bittul ha-Yesh esposta dal Fratello Federico P.

Ebbene, in quest'ultima condizione, abbandonate le convenzioni e l'esistenza (e mentalità) fenomenica, il gruppo subconscio/inconscio/conscio è trasferito ad un livello superiore, a livello cioè del Superconscio, in una esperienza che nello Yoga è definita col termine di Samadhi e che probabilmente è simile a quello che Abulafia intende per Unione con Dio. Nel, Tesoro del Paradiso Nascosto (Otzar Eden Ha-Ganuz) Abulafia scrive: Devi essere da solo quando fai questo. Medita in uno stato di rapimento, così da ricevere l'influenza divina, che porterà la tua mente dallo stato di potenza e quello di attualità. Quindi lo scopo è di dissigillare l'anima, sciogliere i nodi che la legano. Tutte le intime forze e tutte le anime negli uomini sono distribuite e differenziate nei corpi. Ma quando i nodi sono sciolti, ogni forza corre secondo la sua natura alla sua prima origine, che è unitaria, priva di ogni duplicità, e che comprende in sé la molteplicità infinita. Lo scioglimento è dunque un ritorno dalla molteplicità e dalla separazione all'unità originaria. Del resto anche nella teosofia del buddismo nordico si presenta come simbolo della grande liberazione mistica dell'anima dai ceppi della sensualità lo scioglimento dei nodi e recentemente uno studioso francese ha pubblicato un testo didattico tibetano con un titolo molto simile. Vi sono, insomma, secondo Abulafia, determinate barriere che separano la vita individuale dell'anima umana dalla corrente della vita cosmica, che fluisce attraverso tutta la creazione e che per lui si personifica nell'intellectus agens della filosofia medievale. É ancora Scholem ad osservare: Esiste una diga che trattiene l'anima nel suo naturale dominio della vita umana, e che perciò le impedisce di essere trasportata dalla corrente del divino che scorre intorno o al di sotto di essa; ma la stessa diga vieta anche all'anima di acquisire la conoscenza del divino. I sigilli impressi sull'anima lo proteggono da una tale inondazione e assicurano il suo naturale funzionamento. Ma come vengono apposti questi sigilli? Semplicemente, risponde Abulafia, per il fatto che la vita abituale dell'uomo, la sua percezione del mondo esterno, riempiono e impregnano l'anima di una quantità di forme sensibili o di immagini (chiamate, nel linguaggio della filosofia naturale, forme naturali). Dal momento che l'anima comprende i grossolani oggetti del mondo naturale e accoglie in sé le loro forme, da questa sua funzione naturale deriva una sua particolare vita su cui è impresso il marchio del finito e del limitato. La normale vita dell'anima è pertanto chiusa in confini determinati dagli affetti e dalle percezioni sensibili: e finché l'anima è piena di queste forme e di questi affetti, le è estremamente difficile pervenire alla visione delle cose divine e delle pure forme spirituali. Ora, se si vuole che la vita divina irrompa nell'anima, pur attraverso i confini della sua vita naturale e senza che essa ne sia sopraffatta, bisogna cercare una via che consenta di raggiungere una tale meta con metodica sicurezza. Tale via è indicata dall'antico proverbio: Chi è pieno di sé, non ha posto per Dio. Tutto ciò che riempie o occupa l'io naturale dell'uomo deve essere o eliminato o trasformato, acciocché i lievi contorni della realtà spirituale possono apparire, pur attraverso il guscio delle cose naturali.

Dunque, questo probabilmente il fine - il dissolvimento in Aïn, il superamento dei dualismi e della dualità. Due veloci considerazioni sui mezzi, sulla tecnica per raggiungere questo scopo. Il metodo di Abulafia viene presentato nei dettagli nella Luce dell'Intelletto (Or Ha Sekhel). L'intera antologia è presentata da Rabbi Moshe Cordovero nel suo Pardès Rimonim (Giardino del Melograno). È un metodo estremamente complesso che fa uso della tecnica della permutazione delle lettere, e la pronuncia dei vari nomi di Dio. Il più importante tra essi è il Tetragramma. Le quattro lettere (hwhy) vengono combinate con la lettera aleph (a), insieme alle cinque vocali primarie o fondamentali.

Allora, se il fine, lo scopo ultimo è quello detto... in che modo la tecnica conduce al fine? Probabilmente i diagrammi meditativi di Abulafia, quelli che Abulafia stesso ci invita a costruire prendendo in mano la penna, hanno due funzioni contemporaneamente. Una grafica, simile al concetto orientale di mandala, ed una sonora, simile al concetto orientale di mantra. A che serve un mantra? Il Kaplan  ricorda che il mantra serve, con la sua ripetizione ossessiva, a elevare l'iniziato in uno stato di coscienza superiore. Ancora il Kaplan fa riferimento ad una tecnica utilizzata a Safèd nel XVI secolo chiamata gherushin che consisteva nel ripetere un versetto della Bibbia come un mantra. Questa tecnica, non solo era usata per elevare l'iniziato a un livello di coscienza superiore, ma anche per arrivare a una comprensione più profonda del versetto come se, attraverso la ripetizione, il versetto emanasse il suo significato. Piuttosto che leggere o analizzare il testo, l'iniziato entrava in comunicazione con esso. Più o meno quanto accadeva in una tecnica usata da Josef Caro e dai suoi discepoli. Invece che un versetto della Bibbia, essi ripetevano un passo della Mishnà. Anche qui la comprensione non avveniva attraverso lo studio o l'analisi ma mediante il contatto con l'essenza spirituale del testo.

In genere si è più portati a credere che non ci sia nessun nesso tra il mantra e il suo significato. Per raggiungere un certo stato di coscienza, poco importa se si usa il Ribbonò shel Olàm (Padrone dell'Universo) consigliato da Kaplan sulla scorta di illuminati maestri o il provocatorio Hickory, dickory, dock di Aleister Crowley. Il Mantra dovrebbe servire a sgombrare la mente dai pensieri, a uccidere le scimmiette impazzite, come direbbe Julius Evola, a sacrificare i bambini appena nati, come direbbe Crowley; è il vento di tempesta di Ezechiele nella tecnica della Bittul ha-Yesh che la mente deve osservare per arrivare al Kasmal o silenzio sonoro. Calmare la mente, dunque. E in effetti Abulafia scrive nel Tesoro del Paradiso Nascosto: Se la mente è in grado di controllare la propria fantasia, allora egli può cavalcarla come un cavallo. Può controllare i suoi desideri... la sua immaginazione resterà ferma nella sua volontà, senza allontanarsi dalla sua autorità. Una persona con questi poteri è veramente un grande guerriero. È come Uriel, il cui sguardo è costantemente rivolto alla luce di Dio, e delizia nei suoi misteri.

Di una forzatura - nel voler trovare analogie ad ogni costo - ci rendiamo conto. Quella cioè di aver approssimato la comprensione di sé con l'isolamento di sé, il puro osservare con la concentrazione protratta. Tutti ricordano che sono due cose diverse. Ma è la sperimentazione, l'operatività reale e non millantata che permette di distinguere.

 

Concludiamo facendo cenno a due altri ambiti in cui giganteggia Abulafia, quello della Musica e della Qabalah profetica. Moshe Idel, precisa che ci sono due aspetti principali nell'associazione tra estasi mistica e musica nella Qabalah estatica: da una parte la musica serviva come analogia per la tecnica che dava accesso all'estasi e all'esperienza estatica; dall'altro lato era un elemento importante della tecnica vera e propria di Abulafia e dei suoi discepoli. Idel esamina entrambi questi aspetti del rapporto tra musica ed estasi profetica. La musica, ad esempio, può essere simile allo Tziruph, perché entrambi operano per l'armonia creata da due principi differenti, perché raggiungono il cuore, perché sono attività condotte al di fuori dell'anima che agiscono su di questa.

Idel indaga anche il valore della musica quale strumento per pervenire all'estasi: si trattava di un'idea diffusa ai tempi di Abulafia che sembra potersi sintetizzarsi in questi tre punti:

C'è una connessione tra la scienza della musica, benché ora sia persa, e la profezia;

Il canto dei profeti e dei leviti era connesso al Nome di Dio;

L'uso in qualche misura ambiguo del termine nequddah (nota musica/punto vocalico) sembra indicare un legame tra il canto dei leviti e i punti vocalici.

 

Tuttavia, secondo Idel, in opposizione a filosofi e cabalisti, Abulafia si esprime pochissimo   sull'aspetto teorico della relazione tra musica e profezia. Nel terzo capitolo del suo libro Idel      concentra la sua attenzione sull'esperienza profetica. É il capitolo più lungo e impegnativo  dell'intero volume, la cui lettura è resa stimolante e difficile dal tentativo di delineare il rapporto tra intelletto e immaginazione nell'esperienza descritta. Il problema nasce dalla necessità avvertita da Abulafia di spiegare le sue visioni. Idel formula la questione nei termini seguenti:

Seguendo Maimonide, Abulafia afferma che la profezia è impossibile senza la facoltà immaginativa, attraverso la quale il flusso dell'intelletto è trasformato in immagini e suoni. La funzione dell'interpretazione è di ritornare al flusso intellettuale che racchiude al suo interno il contenuto, intellettuale appunto, della rivelazione. Abulafia si considerava un profeta da ogni punto di vista... di conseguenza le sue visioni racchiudevano un messaggio intellettuale sotto un aspetto immaginativo. Osserva Pierluigi Fiorini che del volume ha curato la presentazione: Credo che proprio la ricerca di unità tra l'esperienza estatica e quella filosofica - unità raggiunta al termine del cammino mistico e non nelle sue tappe - costituisca una degli elementi più affascinanti della vicenda "profetica" di Abulafia e che di conseguenza sia da indicare proprio nell'esame di questo aspetto uno dei caratteri di maggior valore nello studio di Idel. Il capitolo si sviluppa nella descrizione e nella discussione delle singole caratteristiche dello stato estatico: le sensazioni e i sentimenti, il timore, la visione della forma umana, la percezione di luminosità e di suoni... Vengono poi discussi i rischi ai quali Abulafia vede esposto il mistico nella sua esperienza e viene presentato lo stato di unione mistica, la Devequt.

tratto dal sito della Loggia "Har Tzion Montesion"

http://www.montesion.it/

 

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