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Le Scuole Iniziatiche dell'Antica  Saggezza

MARTINISMO

                                
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I FONDAMENTI DELL'ESOTERISMO

                          

di FABRIZIO MARIANI

GIOVANNI ANIEL S.I.I.

GRAN MAESTRO PASSATO DELL'ORDINE MARTINISTA UNIVERSALE

 

           L'azione - è stato ripetuto più volte - avviene nel mondo che, non a caso, i cabalisti definiscono, per l'appunto, mondo dell'azione. Questo mondo è quello che ogni giorno, ogni momento, anche in questo momento, ci mette alla prova per saggiare l'oro che abbiamo saputo produrre durante la nostra vita iniziatica. Piccole cose: malumori, insofferenze, ansie, problemi di adattamento, fastidi, umori che cambiano con il cambiare delle condizioni meteorologiche; si tratta, insomma di tutta una serie di connotazioni esistenziali che costellano il nostro vivere e spietatamente lo orientano.

          Ma se le cose stanno così, non solo noi che ci siamo posti sul "sentiero" siamo in tutto e per tutto simili a quelli che sbrigativamente siamo soliti definire "profani", ma a volte, addirittura, giungiamo a collocarci un gradino più in basso, specie se ci confrontiamo con persone che, per altre vie, sono giunte all'analisi di se stesse, delle proprie motivazioni,  delle proprie pulsioni e si sforzano di migliorare con gli strumenti che hanno a disposizione e che sono di gran lunga meno sofisticati dei nostri. Una delle colpe più gravi delle quali possiamo macchiarci davanti alla nostra coscienza consiste nel trasferire all'interno dell'ambito del cosiddetto ricercatore spirituale le connotazioni e le modulazioni del mondo profano, che possono essere sintetizzate in una formulazione unica: gestire l'eternità con i parametri del tempo invece di gestire il tempo con i parametri dell'eternità. E' un fatto inoppugnabile: nel momento in cui sollecitiamo lo spirito a prendere coscienza di se stesso attraverso gli strumenti della ricerca spirituale, noi decidiamo di muoverci in un ambito che trascende il tempo e approdiamo alle rive di un altro mare, ponendo il piede incerto sul limitare dell'eternità. Non usciamo dal tempo, questo è inteso: come potremmo? di certo, però, sperimentiamo un modo di essere che, se le cose sono state fatte a regola d'arte,  ci apre a prospettive mai prima intraviste: la coscienza si espande, la sensibilità si affina, di certo aumenta la percezione del dolore, che è sempre però compensata dalla luminosità di una gioia immota che, incorporatasi in noi, ci sospinge ad azioni che vanno ben oltre i miseri propositi e i meschini calcoli affioranti dal piccolo uomo e dalla piccola donna che il nostro spirito guida e ai quali benevolmente si accompagna. Il piccolo uomo e la piccola donna  muoiono soltanto quando il corpo muore: questo non va mai dimenticato, proprio per non essere esposti al vento della disillusione e della frustrazione; lo spirito, però, che è stato reso attivo dalla ricerca sul sentiero dell'autorealizzazione, ha il potere di circoscrivere e tenere sotto controllo i fastidi e le noie quotidiane che dal piccolo uomo e dalla piccola donna inevitabilmente scaturiscono. E questo potere si fa sempre più ampio via via che si espande la consapevolezza di agire nell'eternità e non nella soggezione del tempo, di agire cioè per quello che realmente siamo, creature immortali che esistono da sempre ed esisteranno sempre. Come possono, a questo punto, prevalere la fretta e l'inquietudine? Ne "La morte di Ivan Ily'c" , Tolstoi scrive: "Cercò la sua solita paura della morte e non la trovò più. Ma quale morte? Era finita, la morte. Al suo posto c'era la luce". Questo è senz'altro un bel parametro - non l'unico, certo - per valutare la lunghezza della strada che abbiamo percorso. Altri, più congeniali, possiamo trovarne se impareremo a riflettere su noi stessi.

          L'eternità, intesa come condizione entro la quale sviluppare la nostra ansia di vivere oltre i limiti che il tempo, nel nostro nascere al mondo, ci ha imposti, non è un concetto staticamente misurabile, allo stesso modo che non lo è la pluralità delle dimensioni (oltre le quattro che fanno parte del mondo della manifestazione) entro le quali ci moviamo e sulla cui realtà, confortati dalle acquisizioni della fisica quantistica nonché dalle intuizioni dei mistici, non nutriamo più dubbi; se non misurabile, però il concetto di eternità può dirsi dinamicamente acquisibile e non esiste uomo, crediamo, così lontano dalla propria centralità da non averne sperimentato, sia pure fugacemente, l'immanenza. La folgorante intuizione di Jung a proposito dell'Eucarestia  cristiana può esserci di valida guida: Jung sostiene che al culmine del rito della Messa, durante l'elevazione della particola, l'officiante apre una finestra sull'Altrove, dalla quale si affaccia il Crocefisso, esaltato nell'eternità del suo sacrificio estremo. Questa esperienza, ove avvenga, è tale in quanto veicolata da un rito (e non sarà inutile ricordare ciò che affermava il vescovo Leadbeater, uno dei massimi esponenti della Società Teosofica, essere cioè la Messa cristiana un rito congegnato in modo tale da sortire comunque i suoi effetti indipendentemente dalla consapevolezza e dalla capacità dall'operatore, a condizione, ovviamente, che le regole liturgiche siano  rigorosamente rispettate).

          Stabilito quindi, quanto meno sulla base delle affermazioni fatte da questi due autori, il ruolo fondamentale giocato dalla rituaria nell'operatività magica (e operazione magica può essere definita senza ombra di dubbio la cristiana transustanziazione, cioè il mutamento reale delle specie, pane e vino, in carne e sangue), ci possiamo chiedere se un approccio non episodico né casuale con l'Altrove sia possibile, prescindendo dal rito: la risposta è senz'altro positiva, anche se  va subito precisato che occorre imparare a sviluppare le condizioni preliminari all'interno di sé. Dirò di più: chi riesca ad entrare non episodicamente né casualmente nell'onda dell'eternità senza passare attraverso una pratica rituale dimostra di aver operato con cura, con grazia e con rigore sui propri corpi - dal più denso al più sottile - con molto maggiore ardore di quello che si richiede a chi abbia appreso a calarsi con disciplinata attenzione in un rito qualsiasi, magico o religioso che sia. L'uomo che così opera, infatti, non ha altri punti d'appoggio, né altri approdi oltre  quelli che da se stesso è in grado di darsi e anche se non fa parte di una qualche organizzazione iniziatica, anche se non è praticante di questo o quel culto, è, senza dubbio alcuno, uscito dalla sua condizione di profano ("profano", lo ricordo, è etimologicamente colui che sta "fuori del tempio") e si è incamminato con decisione lungo la strada della propria realizzazione.

          A questo punto ci si può chiedere a che cosa servano i riti, le organizzazioni iniziatiche, i culti, dal momento che all'uomo è data la possibilità di realizzarsi prescindendo da essi. Una prima risposta è che non tutti hanno questa possibilità; la maggior parte, anzi, necessita  di questi appoggi esterni non solo per la cosa in sé, ma anche per servirsene come strumenti di verifica e di controllo: il contatto con gli altri, infatti, anche con quelli che stanno camminando con te, anche se vivificato dall'amore e dalla tolleranza, è sempre un duro contatto, ma prezioso perché  quasi sempre ti permette di rientrare nei ranghi del buonsenso e della costruttività quando la mente tenti di farti uscire per la tangente.

          Occorre infine guardarsi dalle vistose oscillazioni del pendolo della nostra anima, cioè dagli eccessivi entusiasmi che hanno sempre, come contraltare, cocenti depressioni. La virtù, come è arcinoto, sta nel mezzo, nella quieta gioia di vivere e di agire. E allora facciamo un piccolo, significativo esperimento con moi stessi: poniamoci, una buona volta, lungo lo spartiacque tra queste due imposture (l'entusiasmo e la depressione) e a guardare la realtà per quello che è: nuda, libera, senza orpelli, come è e non come la vorremmo. Fate la prova, una piccola prova: quando piove e fa freddo e viene subito il crepuscolo, provate a sentire sopra di voi, sopra quel piccolo strato di nubi nere, la presenza, il calore e l'immota serenità del sole; il sole c'è, è una realtà, anche se i vostri occhi non lo vedono e il vostro cuore lo rifiuta. Il maltempo - anche nel nome! - attiene al tempo, al divenire, mentre il sole è l'immagine tangibile dell'essere. Se avrete capito qualcosa della via iniziatica sceglierete il sole.

          Il mondo nel quale ci siamo incarnati è un luogo,o, per meglio dire, una condizione nella quale facciamo esperienza attraverso i nostri cinque sensi. Per mezzo dell'esperienza scopriamo che ogni cosa si trasforma continuamente, rimanendo tuttavia, in qualche misterioso modo, se stessa. E', questa, la base di tutte le religioni rivelate: il Brahmanesimo, una delle più antiche, se non la più antica in assoluto, attribuisce al mondo della manifestazione le proprietà della Trimurti, cioè Brahma,Vishnu, Shiva, indicanti, rispettivamente, la nascita, la conservazione, la morte, poste ai vertici di un triangolo, sì che alla morte segua una nuova nascita e così via. Ma i vertici del triangolo non sono il triangolo, quest'ultimo essendo rappresentato, nel mondo della forma, dal Brahman, cioè l'indistruttibile , inalterabile e inconoscibile Principio Primo. Nel Taoismo questo Principio primo si identifica con il Tao, il "Senza nome", così come lo indica Lao-Tsu nel "Libro della Via e della Virtù" ("il Nome che può essere nominato non è il Nome eterno"), mentre il mondo della manifestazione e delle trasformazioni si articola attraverso la dialettica dello Yin e dello Yang, il principio maschile e il principio femminile  . Per i cabalisti, il mondo non è creazione, ma emanazione: dal Principio della Non-manifestazione, Ain, erompe un segnale che attiva i dieci Santi Sefirot: nel triangolo superno, formato da Kether, Hockmah e Binah, si riproduce sia la circolarità del Brahman, sia l'antagonismo duale del Tao. La Triade somma si ritrova anche presso gli gnostici cristiani, i quali fanno riferimento al Padre, al Figlio e alla femminile Nostra Signora lo Spirito Santo (quest'ultimo principio, sia detto per inciso, è la chiave per dissuggellare il mistero delle numerose Notre Dame cui sono consacrate la principali cattedrali francesi). Di emanazione, infine, parla esplicitamente la più recente religione rivelata, l'islamica, quando afferma che Dio, dopo aver animato la forma, se ne ritrae.

          Abbiamo dunque agio di sperimentare due condizioni: da una parte le trasformazioni, dall'altra l'inalterabilità di ciò che ad esse è sotteso. La limitatezza dei nostri cinque strumenti di percezione fa sì che non possiamo andare oltre certi parametri  di conoscenza: in condizioni normali, tanto per fare un esempio chiarificatore, non siamo in grado di percepire la luce ultravioletta o gli infrasuoni (cose che la fisica ha ampiamente dimostrato essere reali quanto quelle percettibili). Il fatto che non possiamo sormontare certi limiti non significa dunque che oltre quei limiti non vi sia qualche grandezza fisica, allo stesso modo che non possiamo escludere, confitti in un mondo che percepiamo a quattro dimensioni, l'esistenza di innumerevoli altre dimensioni la cui sperimentabilità ci è preclusa. Oltre i cinque sensi, però, disponiamo di quello che comunemente si chiama "sesto senso" e che consiste nella capacità di intuire eventi e realtà metarazionali la cui esistenza è dimostrabile  - e sovente addirittura misurabile - con strumenti molto più sofisticati di quelli di cui l'uomo è dotato (il telescopio o il microscopio elettronico, per esempio, colgono e misurano oggetti che l'occhio umano non è in grado di vedere). E' grazie al sesto senso che il filosofo e l'esoterista sono in grado di offrire all'umanità teorie sull'interpretazione della realtà che prescindono dalle conoscenze ordinarie e anticipano l'avvenire.

          Uno degli scopi delle scuole esoteriche, se non il principale, è appunto lo sviluppo armonico e costante dell'intuizione. A proposito di quanto detto prima  sulle religioni rivelate, l'intuizione fa in modo che si cerchi di andare oltre gli aspetti esteriori (la Vergine vestita di azzurro, la pluralità e l'apparente ingenuità degli dèi dell'induismo, il pantheon dei Greci, le inquietanti divinità degli Egizi e via elencando) per attingere quella Realtà ultima che si nasconde dietro la molteplicità delle forme: lavoro difficilissimo, questo, se si considera che noi stessi siamo forma, che nella forma nasciamo, agiamo, moriamo. Ma se siamo forma - ed è vero - è altrettanto vero che da essa possiamo prescindere cercando di scorgere che cosa c'è, all'interno di noi, che non sia soggetto alla trasformazione come lo sono il corpo, le emozioni, i pensieri. Secondo uno dei più antichi assiomi della filosofia ermetica, ciò che è in alto è come ciò che è in basso: quanto, in altre parole,  vale per il macrocosmo - vedi il rapporto tra il Brahman e la Trimurti - non può non valere per il microcosmo, specie se questo microcosmo è stato infuso dell'energia di un'iniziazione tradizionale che gli consente di andare a cercare, con strumenti più sofisticati degli ordinari, il Brahman dentro di sé.

          Il compito che siamo chiamati a svolgere sembra dunque essere quello di indagare gli aspetti della natura umana che si sottraggono al ciclo delle trasformazioni: per fare questo occorre, in primo luogo, osservare bene con quanta frequenza, a tutti i livelli, ci trasformiamo.

          Per quanto attiene al corpo, l'indagine è semplice: anche se non sapessimo che tutte le cellule si rinnovano ogni sette anni, sì che il mio corpo è, di sette anni in sette anni, un altro corpo, basterebbe un'occhiata allo specchio o andarsi a riguardare le foto di qualche tempo fa per avere tutte le conferme possibili; per quanto riguarda le emozioni, quantunque ci si muova nella regione dell'Invisibile, è fuori di dubbio che esse, più ancora del corpo, sono soggette a rapide trasformazioni e ognuno ha sperimentato e sperimenta su se stesso con quanta facilità i suoi umori trascorrano dal positivo al negativo e viceversa: la persona che un attimo prima era serena e in pace con se stessa può cadere preda dell'angoscia soltanto per essersi imbattuta in un piccolo evento non armonico o per aver letto sul giornale una notizia non piacevole (per non parlare dei cosiddetti meteoropatici che regolano il proprio umore interno sulla base delle condizioni atmosferiche, soggiacendo, senza interrogarsi, ad una legge naturale spietata, ancorché eludibile con minimo sforzo,  in forza della quale esiste una stretta relazione tra i viventi e l'ambiente in cui sono immersi); il movimento e la trasformazione dei pensieri, infine, sono ancora più rapidi e meno prevedibili, grazie ai nessi, logici e non, che la mente non addestrata alla concentrazione è portata compiere con un'audacia che sfiora la vertigine. Sembra, per inciso, di capire che questa velocità di trasformazione sia direttamente proporzionale al grado di rarefazione dei vari corpi dell'uomo: più un corpo è sottile, più veloci (e quindi meno controllabili e gestibili) sono le trasformazioni che subisce; se ne deduce che, nella fase di avvio alla meditazione, come ognuno ha agio di sperimentare, è più facile controllare la mobilità del soma che non quella dell'astrale e, men che meno, quella del mentale.

          In effetti, una buona meditazione ha, almeno all'inizio, proprio questo scopo: tenere fermo tutto quello che, per sua natura, è naturalmente portato al movimento. E' ovvio che questo controllo, quando avviene, non blocca le trasformazioni che sono la chiave di volta del mondo del divenire; non le blocca, ma fa emergere la consapevolezza di poterle controllare,o, quanto meno, di assistere dal di fuori a tutto il movimento. A questo punto sorge spontanea la domanda: chi è che ha consapevolezza? chi è che controlla? chi è che assiste? La risposta a questa domanda, oggetto di una nuova e più approfondita meditazione, ci porta direttamente nel cuore del problema e a sperimentare immediatamente, all'interno di noi, la presenza del Tao, o del Brahman, o di comunque si voglia indicare l'inesprimibilità dell'Essere.

          Quando si comincia a studiare filosofia il primo incontro avviene con i presocratici: Parmenide, in particolare, ci informa che "l'Essere è". Questo concetto, apparentemente semplice e lineare, nasconde una verità tanto profonda che, all'occhio della persona digiuna di cose iniziatiche, può apparire, una volte disvelatasi, terrificante. Dire che l'Essere è significa infatti comprendere tutto nell'Essere, non escluso il Nulla. Il Nulla, in una visione totalmente trascendente della Realtà ultima, è parte integrante dell'Essere: è l'unica condizione, questa, che consenta al pensiero di uscire dalla dialettica dei contrari per lambire le soglie del Pensiero Puro. La prima meditazione da fare, dunque, per entrare in questo diverso ritmo della conoscenza, consiste nel fermare quietamente l'attenzione sul Pensiero Puro (o Immacolata Concezione, che linguisticamente vuol dire la stessa cosa).

          Il Pensiero Puro, in sé e per sé, non corrisponde in nulla a ciò che siamo soliti definire come pensiero: è un'altra cosa, che prescinde dai parametri che ci sono noti e che in questa definizione (altre non ce ne sono) rientra soltanto marginalmente e solo in quanto viene concepito con lo stesso strumento con il quale concepiamo i pensieri correnti, cioè la mente. Nell'approccio al Pensiero Puro, però, la mente, che ordinariamente può anche sussistere per se stessa, ha bisogno di un supporto non transeunte e, quindi, deve agganciarsi al più inalterabile degli elementi del composto umano, cioè lo Spirito: grazie a questo aggancio la mente si predispone ad un'attività prima ignota, mentre, contestualmente, lo Spirito apprende a riconoscere se stesso (che è poi, sia detto per inciso, il compito precipuo di ogni incarnazione). Lo Spirito pensa se stesso: la meditazione sul Pensiero Puro è tutta qui.

          Ma poiché questa affermazione, se non è basata su un dato di esperienza, non significa nulla, occorre avviare la mente all'esercizio dell' Immacolata Concezione con una serie di indicazioni che svolgono, lungo il percorso delle successive approssimazioni al Reale, la funzione dei segnali stradali: quando imbocchiamo una via per dirigerci verso una meta sconosciuta noi sappiamo, senza dubitarne, che la meta esiste in qualche punto dello spazio e sappiamo altresì, senza dubitarne, che i segnali ci consentono di raggiungerla agevolmente (o di perderla, se qualcuno, per un perverso motivo, si diverte a cambiare le indicazioni o a sostituirle con altre inesatte). In questo approccio avviene esattamente la stessa cosa e soltanto l'intuizione, non suffragata da alcuna esperienza, ci può indicare se i segnali nei quali ci imbattiamo sono autentici e credibili. Quali sono questi segnali? La risposta non può essere che una: si tratta di quegli archetipi dell'inconscio collettivo che ogni incarnato sa riconoscere immediatamente e senza fallo, attingendo a quel deposito comune che trascende le vite individue e le coordina in un insieme senza fine che unisce, al di là del velo di Maya, i cosiddetti vivi e i cosiddetti morti.

          Tuttavia, prima di tentare una meditazione sugli archetipi, non sarà male fermare l'attenzione su alcuni punti fissi di riferimento. Ancora una volta ci sarà utile tornare alla filosofia greca e, in particolare, a Platone e al suo maestro Socrate.

          Platone ci dice che la realtà, quale noi la vediamo, viviamo e trasformiamo, non è che un riflesso, un prodotto, un effetto delle idee che la informano: senza le idee, aggiunge, non si dà la realtà del mondo della manifestazione. Se, all'inizio, limitiamo la nostra attenzione alle cose prodotte dall'uomo, non possiamo che convenire: in effetti, perché sia possibile realizzare un ponte, una bicicletta, un'autostrada, uno spillo, un' acciaieria è necessario che, a monte, l'idea di questi manufatti si formi, si consolidi e si articoli in tutti i dettagli: perché un ponte non crolli, tanto per fare un esempio, è necessario che siano stati compiuti precisi calcoli e che, di questi calcoli, si tenga conto in fase di realizzazione. Il ponte che un giorno vedremo realizzato è, di necessità, a priori nella mente dell'architetto.

          Il mondo della manifestazione, però, non è fatto solo di cose prodotte dall'uomo: ci sono gli alberi, le stelle, le uova, le creature viventi, le rocce e via elencando. Non è difficile, anche in questo diverso settore di indagine, scorgere l'esistenza di un'idea, a monte, già realizzata e compiuta: nel seme di una pianta, infatti, è presente in tutti i dettagli lo schema invisibile della pianta stessa e perché il seme si trasformi in pianta è solo necessario che sia posto, fisicamente, nelle condizioni adatte perché questa trasformazione avvenga (interramento, annaffiamento e così via): l'uovo di gallina, una volta fecondato, resta uovo con il tuorlo e l' albume, ma se lo si pone a cova ecco che quei liquidi, pian piano, secondo i ritmi della natura, si trasformano in ossa, carne e piume di un essere vivente e senziente. Lo schema invisibile del pulcino, dunque, esiste a priori in ogni uovo fecondato. E la legge di Newton sulla gravitazione universale, in base alla quale i mondi non cadono uno sull'altro ma si muovono nel rispetto di un rigido schema operativo, non è altro che l'idea platonica sottesa all'ordine; non è difficile, a questo punto,sia detto per inciso, presupporre l'esistenza di un'Intelligenza cosmica operante in tutto il cosmo, dai moti delle galassie, alle trasformazioni che avvengono all'interno delle cellule, ai salti dei quanta, Intelligenza che, se si vuole, può essere definita l'Essere in manifestazione, o, più semplicemente, Dio, Intelligenza che si identifica con la Legge che governa l'universo.

          Premesso che l'iniziato non deve aver fede  (quindi non soggiacere a dogmi), ma soltanto essere disposto a conoscere, non possiamo ignorare che nell'uomo, elemento di questo universo, la Legge si manifesta anche come legge morale. I princìpi etici sono di duplice natura: gli acquisiti (che nascono dalle esigenze sociali e   possono mutare con il mutare delle strutture in cui si vive, dei tempi e dei luoghi) e i fondamentali ("non uccidere", per esempio), che sembrano radicati a priori nell'anima e non cambiano per quanto possa cambiare il mondo nel quale l'uomo è immerso. E' ovvio dedurre che i princìpi di questa seconda natura prescindono dall'uomo così com'è e attingono una regione archetipale che è preclusa ai sensi ordinari, quella regione dove la Legge arricchisce il suo apparente meccanicismo (l'Intelligenza ordinatrice, infatti, potrebbe essere puramente meccanica) di una connotazione volitiva che ha le sue radici nel Bene, nell'Utile, nel Giusto, nel Bello. Se osserviamo l'uomo nella sua globalità (ché tale l'uomo è: una globalità, anche se, per meglio comprenderne le azioni, lo si frantuma in vari "corpi", dal fisico al mentale, all'astrale e via elencando), scopriamo che al di là della parte tangibile e peribile (l'insieme cioè di soma, psiche e mente) c'è qualche altra cosa: l'uomo infatti può sì dire "io penso", e in tal caso si muove nella regione del corpo mentale, ma se dice "io osservo il pensatore", e lo può fare, è costretto ad interrogarsi sulla natura di quell'"io", cioè su chi sia l'osservatore. Si può arrivare rapidamente alla conclusione che, oltre al composto peribile (il corpo, il nome, gli istinti, le passioni, le tendenze, i sentimenti, i pensieri, il modo di pensare, il livello di intelligenza, la capacità di sopportazione e così via), tutti elementi della cosiddetta personalità, nell'uomo c'è qualche altra cosa, cioè l'individualità, che pur non avendo nome, né corpo, né faccia, né tendenze, né passioni, né pensieri, è in grado di osservare e di percepirsi come essere che è, o, per dirla in termini esoterici, come Io sono.

          Tutto questo non è scientificamente dimostrabile: gli esoteristi che, nell'ansia di una male intesa ricerca di credibilità e di inspiegabile gratificazione, ci hanno provato, hanno giustamente e clamorosamente fallito la prova perché hanno usato parametri incongrui, allo stesso modo che fallirebbe un matematico se tentasse di dimostrare uno dei princìpi della sua scienza partendo da convalidati presupposti etici. Socrate ai suoi tempi, Krishnamurti e Rajineesh ai nostri non hanno mai inteso dimostrare alcunché e, anzi, hanno cercato di dissuadere gli altri dal tentarlo; hanno però indicato la via della conoscenza e, per tornare all'esempio dei segnali stradali, disegnato mappe e tracciato sentieri su queste mappe. Chiunque lo voglia può mettere il piede sul sentiero, incamminarsi e fare le sue esperienze, verificando, in tal modo, se il percorso corrisponda a quanto è scritto sulla mappa e se le indicazioni dei "cartografi" siano verosimili. L'esperienza, ovviamente, è individuale e i risultati acquisiti non sono dimostrabili con gli strumenti dell'ordinarietà corrente; resta però da chiedersi come mai tante persone, del tutto digiune di cose esoteriche, si sentano autorizzate a parlarne e a dare giudizi, quasi sempre negativi, e come mai quelle stesse persone, che non dubitano dell'esistenza di una città che non conoscono perché sanno che, se vogliono, possono andarci, davanti all'affermazione che è possibile conseguire stati diversi di coscienza seguendo determinate indicazioni (che non sono segrete), non solo non si concedono il beneficio del dubbio, ma liquidano senza esitazioni tutta la faccenda, considerandola niente altro che un'astruseria da mentecatti. Forse è in questo essere costretti a riconoscersi mentecatti agli occhi del mondo che risiede il principio della cosiddetta aristocrazia degli iniziati, principio non cercato e non voluto, ma ineluttabilmente emergente dalla forza profana delle cose. 

Fabrizio Mariani

 

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