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LA TEOSOFIA

                                
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Appunti di lavoro interiore

Roberto Assagioli

 

In questi brevi appunti sono segnati, in modo semplice ed immediato, i moniti, le intuizioni, le riflessioni, i propositi di un’anima, quali sono sorti in lei spontaneamente nei suoi silenziosi “colloqui”.

Non pretendono di dire cose “nuove”, né di essere formulati con rigore filosofico: vengono offerti con spirito fraterno, quale incitamento ed augurio, alle anime che lottano ed aspirano.

 

In certi periodi critici dell’evoluzione dell’anima occorre che essa passi per la dura esperienza della privazione di ogni conforto umano; occorre che sia abbandonata a se stessa e che dalla sua impotenza, dal suo tormento, dalla sua disperazione, sia indotta, sia obbligata a rivolgersi direttamente a Dio, per cercare e trovare in Lui solo quello che andava ansiosamente cercando qua e là fra le cose e gli uomini.

Solo attraverso questa esperienza si acquista il potere di dominare realmente le cose e gli uomini invece di lasciarsi allettare o sopraffare da essi, e l’alto privilegio di entrare in comunione piena con Dio, da ricevere abbondantemente la Sua Luce, la Sua Gloria, il Suo Amore.

 

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Per percorrere con sicurezza le ardue vie dello sviluppo interiore, evitando le insidie che vi si incontrano ad ogni passo, conviene imparare a cogliere le “indicazioni” della vita, a riconoscere chiaramente la volontà del Signore, a distinguere le vere intuizioni dalle immaginazioni del subcosciente e dalle suggestioni esterne. È un’arte necessaria. Occorre dedicarvisi continuamente, esercitarsi in essa in ogni occasione della vita quotidiana.

Osservare il modo in cui le “indicazioni” si presentano e notare poi se i fatti le confermano o no.

Così a poco a poco si riesce a sentire la sottile differenza fra quello che scende “dall’alto” e quello che sorge “dal basso” o proviene dall’esterno, a discriminare fra l’intuizione pura, originaria ed i rivestimenti fantastici da cui viene più o meno travisata durante la sua “discesa” attraverso i vari livelli psichici.

 

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Considerare ogni situazione, ogni evento, ogni persona, ogni proprio stato corporeo o morale, come una “prova” (test): una “lezione” ed un “esame”. Lo sono tutti.

 

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Creare una doppia coscienza. Apprendere a non identificarci completamente col contenuto della coscienza del momento: una parte di noi resti sempre libera, quale sentinella, osservatore, giudice: lo Spettatore.

 

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Ogni aiuto materiale dovrebbe essere tramite di aiuto morale e spirituale. Ogni aiuto inteso a combattere degli effetti dovrebbe essere accompagnato da aiuti che valgano ad eliminare le cause.

Così ad esempio i medici dovrebbero, oltre che curare le malattie in corso, insegnare ad ogni ammalato come evitare di riammalarsi; dargli consigli di igiene e di profilassi, sia generale che particolare per i mali a cui è predisposto.

Ciò come minimo. Ma dei medici spiritualisti aggiungerebbero un’opera di psicoterapia e di cura spirituale: mostrerebbero così la via ed i mezzi per raggiungere la “sanità integrale”.

 

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Se si vuol aiutare efficacemente gli altri a migliorarsi (educazione dei giovani, cura d’anime, psicoterapia, ecc.) non bisogna mai contrapporre alle tendenze da combattere o da disciplinare una forza esterna all’individuo (volontà dell’educatore o del medico, imposizione, preghiera e neppure norme o leggi astratte, impersonali), bensì suscitare in lui una forza interiore e superiore.

Il primo metodo, che è purtroppo quello più spesso usato dai genitori e dagli “educatori”, risveglia l’opposizione dell’individuo che si sente menomato e represso nella sua espansione vitale. Da ciò le insofferenze, le ribellioni, lo “spirito rivoluzionario” dei giovani, che sentono sì forte il bisogno di espandersi, di affermarsi.

Col secondo metodo invece si risvegliano i sentimenti migliori dell’individuo, i suoi più alti poteri e gli si mostra che le tendenze inferiori sono appunto un ostacolo contro la sua più vera, più ampia, più degna affermazione.

In questo modo il discepolo si sente compreso e favorito nel suo sviluppo ed accoglie grato l’aiuto offertogli, anzi lo richiede.

 

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Quando un dolore ci tormenta, quando le pene e le preoccupazioni tendono a rinchiuderci nel guscio della nostra personalità e siamo tratti ad abbandonarci ai molli lamenti, alle amare recriminazioni, al malefico “compatimento di sé” obblighiamoci, con risoluto atto interiore, a uscir da noi stessi, a ricordare e realizzare quanti esseri umani in ogni parte del mondo soffrono ben più di noi (i carcerati, i malati nel corpo e nell’anima, gli asserviti a basse passioni, gli abbandonati materialmente e moralmente, eccetera).

Sperdere così la propria goccia di amarezza nel grande mare del dolore umano, ma ricordare insieme il significato, l’alto scopo, il valore spirituale della sofferenza; la meta gloriosa dell’evoluzione umana; la liberazione finale e la beatitudine in cui ogni pena troverà sovrabbondante compenso.

 

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Non si richiede minor animo per sostenere la prosperità che l’avversità. Nei momenti e nei periodi di benessere siamo facilmente tratti a commettere un grave errore: a vivere ed agire solo “personalmente”, allentando la vigilanza e la disciplina, trascurando di mantenere il contatto continuo e cosciente col Dio Interiore. Ci illudiamo di essere liberi, forti, padroni di noi; sperperiamo in modo sterile e talora basso, per scopi egoistici, le preziose energie largiteci dallo Spirito.

Allora occorre che venga “il buon dolore” a riscuoterci, a farci ravvedere e ad insegnarci a divenir degni depositari dei doni e dei poteri del Padre.

 

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Includer tutto e trascender tutto.

Ogni mattina dobbiamo risvegliarci due volte: risvegliarci dal sonno del corpo e risvegliarci dal sonno della coscienza ordinaria alla vera veglia dello Spirito.

 

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Tutti i ricordi delle limitazioni, delle debolezze, degli insuccessi passati non hanno più valore per il futuro. Un aumento di forza spirituale può render facile ciò che prima era impossibile o faticoso.

L’avvenire è nuovo, diverso. Le novelle possibilità non hanno precedenti, non hanno misura o paragone nel passato, non hanno limiti. Non tener conto del passato e procedere, audacemente, con fede infinita, con gioioso ardore!

 

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Spesso non ci riesce di risolvere i nostri problemi, di veder chiaro in noi stessi perché siamo troppo compresi della nostra situazione, troppo chiusi nella nostra personalità. La cosa è troppo vicina e quindi ne vediamo i particolari ma non le linee d’insieme; essa ci appassiona troppo e perciò le emozioni ci offuscano la vista.

Vi sono vari modi per eliminare queste difficoltà e cause di errore.

Il primo è quello di considerare i nostri problemi impersonalmente, come se fossero di altri. Creare la “distanza” opportuna, studiando il caso del signore o della signora che porta il nostro nome e cognome come se fosse quello di un amico, di un estraneo che ci abbia chiesto consiglio ed aiuto.

Il secondo modo è quello di creare la “distanza” nel tempo. Ciò si ottiene non insistendo nel voler risolvere subito la questione, ma mettendola risolutamente da parte: “ignorandola” per il momento ed occupandoci d’altro. Durante l’intervallo vi è in noi una parte profonda che continua ad elaborare il problema, e lo fa meglio senza l’intervento assillante e perturbatore della volontà personale e dell’attenzione consapevole. Così, quando ritorniamo “a mente fresca” al problema, spesso ci si presenta in modo facile e spontanea la soluzione, prima invano cercata. Questo fatto è ben noto in teoria, ma pochi ne traggono una norma costante d’azione.

Un altro modo, ancor migliore dei precedenti, è quello di elevarci, con i mezzi che sappiamo esser per noi i più efficaci (meditazione, lettura, comunione con altri o con la natura, eccetera) al di sopra del piano in cui esiste la perplessità o l’ostacolo; poi osservarli “dall’alto”, donde si può avere una veduta d’insieme dell’intera questione e scorgere l’origine e la direzione delle forze in giuoco. Così si può rettamente decidere ed efficacemente operare, secondo la legge che: per dominare le forze di un dato piano bisogna trascenderlo.

In casi più gravi e complessi - in cui pur usando, o tentando di usare, questi mezzi, non riusciamo a trovare la soluzione o non siamo sicuri che quella intravista sia giusta - possiamo ricorrere all’aiuto di altri. Se ci è dato di ricorrere ad una persona saggia ed elevata, tanto meglio. Ma questo non è necessario; anche una persona semplice ed umile può illuminarci ed aiutarci: basta che abbia simpatia per noi e desideri sinceramente il nostro bene. Gli altri hanno naturalmente la “distanza” suaccennata, vedono le cose da un punto di vista diverso, in un’altra luce e con un’altra prospettiva. Perciò possono giovarci particolarmente le persone di tipo psicologico diverso dal nostro e quelle più dotate d’intuizione.

Ma non conviene ricorrere troppo spesso e facilmente a quest’ultimo mezzo, altrimenti diventiamo troppo dipendenti dagli altri e manchiamo così ad uno degli scopi essenziali della vita: quello di sviluppare la nostra autonomia spirituale.

Infine il modo più alto e più sicuro per risolvere qualsiasi problema, per superare ogni difficoltà, è quello di rivolgere con fervore sincero, con fede piena, un forte appello al Dio Interiore e di attendere con vigile ascolto la Sua “risposta”. Questa può venire, dal “di dentro” o dal “di fuori” oppure salire dal profondo; può esser adombrata (a propria insaputa) nelle parole di un amico o … di un nemico, nella frase di un libro, nelle indicazioni di un evento. La risposta viene sempre: occorre apprendere a riconoscerla e ad interpretarla.

 

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Non dovremmo restare mai (come spesso accade a chi non si vigila e non si “tiene in mano”) in uno stato intermedio di semitensione nervosa, insufficiente per produrre, per irradiare e pur bastante per stancare.

O suscitare l’energia necessaria per operare efficacemente, oppure abbandonare per il momento il lavoro e aprirci agli influssi serenatori, ristoratori della natura, dell’arte, del pensiero. E se neppure per questi ci sentiamo abbastanza “vivi”, far un buon rilasciamento fisico e mentale che ci riposi e ci ritempri.

 

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Uno degli ostacoli più sottili, insidiosi e meno facilmente avvertiti, che arrestano o rallentano lo sviluppo spirituale, è quello del troppo facile appagamento.

Di fronte ai fuochi fatui, agli effimeri luccichii della vita ordinaria è sì gran dono un raggio di luce stellare; di contro ai beveraggi torbidi e brucianti delle passioni è sì gran grazia un sorso di acqua limpida e fresca, che riteniamo di dovercene contentare. Dimentichiamo che in Dio sono infiniti doni a noi destinati.

Avviene a noi come a Rabindranath Tagore: “Io ero pago di aver ricevuto tanto, ma Egli non era ancor soddisfatto di quanto mi aveva dato”.

Ciò non vuol dire che non si debba apprezzare appieno ciò che abbiamo ricevuto. Esser sempre grati e mai paghi.

 

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La noce e l’uomo

Per giungere alla noce interna, tenera e sostanziosa, occorre togliere il mallo, aspro e irritante; spaccare il guscio scuro e tenace; levare delicatamente la sottile ma aderente pellicola.

Così l’uomo, per manifestare la sua vera Sostanza, deve liberarsi del rude ed aspro rivestimento esteriore della propria personalità, deve rompere il duro guscio del suo egoismo e del suo orgoglio, deve ancora liberarsi dal sottile velo separativo creato dalle sue stesse virtù. Allora può nutrirsi di sé, e altri nutrire.

 

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Non si ha il diritto di pregare per una “intenzione” particolare, riguardante un’altra persona, senza che questa lo sappia e vi consenta.

Chi lo fa, si assume una grave responsabilità karmica. Invero è grande presunzione il creder di sapere quale sia il vero bene di un altro, quali siano le vie per cui Dio vuol condurlo.

Si può invece pregare in modo generale per il più alto bene, qualunque esso sia, della persona che ci sta a cuore e offrire per essa a Dio forze e “meriti” in nome dell’Unità della Vita, dell’amore spirituale che è comunione in Dio.

 

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La letizia spirituale non esclude il travaglio, la lotta, lo sforzo per controllare e rigenerare gli elementi inferiori della nostra personalità.

Anzi in tale travaglio possiamo trovare nuova ragione di letizia, sentendo come, nel viverlo fortemente, assolviamo il nostro più degno compito di uomini, aiutiamo l’ascesa comune, siamo veramente “collaboratori di Dio”.

 

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è inutile continuare a dire: “Sia fatta la tua Volontà”, rivolgere preghiere a Dio, invocazioni al “Guerriero”, se non attuiamo con opera costante e volenterosa quello che ci è stato palesemente e ripetutamente indicato quale “Sua Volontà” e se non creiamo, col silenzio interiore, con l’ascolto, con l’abbandono e l’obbedienza, le condizioni necessarie perché il “Guerriero” combatta in noi.

Mantenere contemporaneamente un duplice atteggiamento: massimo dominio sulle cose esterne e sui nostri elementi inferiori, sulle impressioni e sulle suggestioni (sia che pervengano dal di fuori, sia che emergano, violente o subdole, dai bassifondi del subcosciente), massima obbedienza al Re che ha il trono nel misterioso “centro” della nostra anima.

Questo sia il motto di ciascuno di noi: Signore del mondo, servo dello Spirito.

 

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Nell’abbandono fidente ogni nostro tumulto si compone in pace.

 

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Dal punto di vista dello sviluppo spirituale, quello che facciamo ha poca importanza; ne ha molta invece come lo facciamo.

Questo è un principio fondamentale che, ben compreso, ha conseguenze pratiche importanti e molto confortanti per chi è obbligato ad accudire ad umili mansioni.

Per crescere interiormente non importa tanto fare cose più spirituali, quanto farle più spiritualmente; non si richiede di cambiare occupazioni, ma di cambiare anima.

Così chi debba spazzare e spolverare può giungere a farlo con tale spirito da rendere quegli umili atti un vero rito di purificazione, mentre chi studi con mente analitica e arido cuore i più ardui problemi filosofici, chi scriva con mire personali un abile trattato di teologia o di morale, spiritualmente non ha fatto nulla.

 

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Come siamo ciechi ed ottusi di fronte alle innumerevoli opportunità interiori ed esteriori che la vita ci offre!

Troppo spesso trascuriamo o ignoriamo addirittura i tesori che ci son stati messi a portata di mano, mentre ci affanniamo per ottenere cose non necessarie o consumiamo tempo ed energie a lamentarci con petulanza perché la vita non ci dà quello che a noi sembra bene.

Ricordiamo come lo scontento, la svalutazione, il criticismo tendono a limitare, isterilire, “mortificare”, sia chi vien criticato sia chi critica, ed in tal senso costituiscono un’arma sottile ed avvelenata che compie silenziosamente più male che non l’opera clamorosa della ribellione aperta e della violenza palese.

Applichiamoci invece a riconoscere, e ad usare, il grande potere benefico della lode, della gratitudine, della glorificazione.

La lode suscita e vivifica; la gratitudine attira nuovi doni; la glorificazione (che è riconoscimento dell’onnipotenza divina) giunge a trasformare in modo quasi magico le circostanze, gli esseri e noi stessi.

 

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è noto il detto francese: “Partir c’est mourir un peu”. Esso è giusto; ma è più profondamente vero l’inverso: “Morire non è che partire”.

 

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Il Dio Interiore attende in ciascuno di noi, attende da millenni, che noi siamo pronti, degni di riceverlo; capaci di accogliere i Suoi doni inesauribili.

 

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L’uomo ha due compiti che potrebbero sembrare a tutta prima opposti, ma che in realtà si implicano necessariamente l’un l’altro e si integrano in una sintesi creatrice:

Primo: individualizzare, incarnare, rendere autocosciente lo Spirito, che di per sé è universale e supercosciente.

Secondo: estendere indefinitamente i limiti della personalità; universalizzarla.

Queste due attività interiori vanno svolte parallelamente e quando, dopo lunghi cicli, siano portate a perfezione, si giunge alla creazione dell’Uomo Divino, al cui Centro folgorante di luce nulla più può toccare e la cui sfera di irradiazione e di amore si è estesa ad includere tutto ciò che vive.

 

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Di ogni nostro pensiero, sforzo, atto buono viene tenuto conto dalla Grande Legge che regge gli atomi, gli uomini ed i mondi.

 

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Anche l’opera più santa, quella di aiutare gli altri, può esser fatta in modo inopportuno ed eccessivo.

Non è bene lasciare che altri si appoggi troppo su di noi. Se per bontà debole, per malintesa compassione, o per un segreto compiacimento della nostra vanità, lo permettiamo, facciamo del male a quelli cui vorremmo giovare e ci assumiamo una grave responsabilità.

Il più prezioso aiuto che possiamo dare è quello di insegnare ad aiutarsi da sé.

È bene mostrare la via, dare i mezzi per percorrerla, accompagnare fin dove è concesso, sorreggere amorevolmente nei passi pericolosi, ma non è giusto accondiscendere addirittura a portare sulle spalle chi vorrebbe le gioie dell’altezza senza le salubri fatiche dell’ascesa. Resistiamo con fermezza a simili pretese, anche a costo di far soffrire chi ci è caro, di esser accusati di poco amore, mentre lo facciamo in nome di un amore più alto e sapiente.

 

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Tutto, con dignità e con reverenza.

Tutto, con discriminazione e con obbedienza.

Tutto, in letizia e con amore.

 

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Noi invochiamo appassionatamente Dio e ci lamentiamo della Sua apparente lontananza; ma come può Egli entrare in noi, finché siamo tutti “occupati” e preoccupati di noi stessi, degli altri e di innumerevoli cose? Perché Egli venga occorre che tutto il resto vada, o almeno si limiti, si faccia da parte; si noti: tutto il resto, cioè anche le cose buone. Occorre che noi ci vuotiamo: allora Egli ci riempirà.

Questa è la ragione profonda e la giustificazione di tante rinunce, sacrifici, abbandoni, imposti o volontari, che potrebbero sembrare non necessari o innaturali. Questo è il vero senso, tutto interiore, del “voto di povertà”. Coloro che sanno così “vuotarsi” da ogni attaccamento e possesso interno sono i veri “poveri in ispirito” cui è concessa la visione di Dio.

 

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Liberarsi per liberare.

 

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Affermo il Potere invincibile dello Spirito.

Esso è Splendore che fuga ogni tenebra, è Fuoco che brucia, purifica, rigenera.

 

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Affermare è creare (Verbo = Logos creatore).

Dire con serietà, con convinzione, con volontà una parola è evocare il senso, lo “spirito” che è in essa e risvegliarlo, renderlo efficiente.

Affermiamo quindi risolutamente, con fede piena, quello che vogliamo essere, quello che vogliamo creare.

La parola così affermata diverrà azione e l’azione reagirà su di noi, finché noi stessi saremo ri-fatti, rigenerati, identificati con quello che abbiamo affermato.

 

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Quando una difficoltà, una contrarietà, una prova ci si para dinanzi e ci ostacola il cammino e ancor più quando si presenta una serie di tali prove, la nostra reazione spontanea e “naturale” è un senso di impazienza e di scontento, che può giungere sino alla ribellione.

Eppure quelle difficoltà, quegli ostacoli hanno funzioni assai utili nella nostra vita.

Anzitutto servono a saggiare la serietà, la saldezza, la costanza dei nostri propositi. Quelli poco radicati, che non rispondono a esigenze profonde, non resistono alla prova e avviene quindi un’opportuna selezione che va a vantaggio dei propositi veramente vitali.

Le contrarietà servono poi a darci una scossa salutare, a suscitare le energie sopite, a far sprizzare col loro rude urto, delle vivide scintille nella nostra anima. Così esse ci arricchiscono, ci rivelano a noi stessi.

Le opposizioni, sia di eventi che di uomini, valgono anche a farci accumulare e concentrare le energie costruttive e creative.

Spesso un’opera ha tanto maggior efficacia e persistenza, ha tanto maggior potere di irradiazione, quanto più ci è costata, quanta più vita abbiamo dovuto immettere in essa, quanti più sacrifici abbiamo dovuto fare per attuarla.

Il riconoscere questa utilità, il comprendere come in questo senso sia vera l’ardita affermazione degli orientali che “un nemico è altrettanto utile quanto un Buddha”, ci aiuta molto ad assumere un atteggiamento opportuno: attivo e risoluto senza violenza, sereno ed armonico senza debolezza.

 

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Il grande mezzo per progredire spiritualmente è lo sforzo attivo e continuo di bene, voluto, amato ed offerto.

 

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La lettura del giornale

Anche di quest’atto, così insignificante in apparenza e così “quotidiano”, potremmo e dovremmo fare occasione di esercizio spirituale.

La lettura del giornale, come vien fatta di consueto, in modo passivo e non vigile, ha effetti non buoni, anzi assai nocivi sul nostro animo. Il rapido passaggio dell’attenzione da un tema all’altro, il sovrapporsi di una folla di immagini e di idee disparate, che suscitano alla lor volta una serie di emozioni contrastanti; tutto ciò porta alla dispersione mentale, alla superficialità, all’ottundimento del sentire profondo. In questo stato di estroversione e di disgregazione (di “dissipazione”, dicevano con parola efficace gli antichi), noi siamo particolarmente aperti alle suggestioni, ci lasciamo facilmente influenzare dai giudizi, dall’atmosfera psichica, a vicenda scettica, passionale, deprimente del foglio, in cui si riflette, più o meno deformata, la parte più esteriore e men bella della vita dell’umanità. Quale il rimedio?

Non leggere il giornale, non è possibile nella vita consociata e non sarebbe buono: sarebbe una fuga, un isolamento egoistico. Trasformare i giornali, sarebbe assai desiderabile (e molto si potrebbe dire in proposito), ma finché ciò non sia avvenuto occorre trovare altro e più pronto rimedio.

E questo non può essere altro che: cambiare il modo di leggere il giornale. Invece di considerare quell’atto come occasione di abbandono e di riposo, conviene farlo con intensificata vigilanza interiore, con discriminazione sapiente, con cuore caldo e generoso.

Resistere alla curiosità vana, non attardarsi su descrizioni prolisse, su discussioni oziose, sui mille piccoli eventi effimeri. Resistere alla suggestione delle idee correnti, delle passioni collettive, del modo ordinario, separativo ed egocentrico, di considerare gli eventi e di reagire ad essi.

Osservare serenamente, dall’alto, questo quadro tumultuoso e confuso della vita umana, cercar di scorgerne l’ordine celato, le direzioni ed i significati, di intuire le grandi leggi che ne regolano il corso.

Percepire la cecità, l’incoscienza, ma anche le aspirazioni buone e gli impulsi generosi delle masse umane. Realizzare vivamente attraverso i tristi fatti: i delitti, i suicidi, le miserie d’ogni genere che gettano nere ombre ammonitrici sulle brillanti apparenze della nostra “civiltà”; quanto sia grande la somma del dolore umano e sentire una spinta profonda e durevole a dare la propria opera, a dedicare la propria vita per diminuire quel cumulo di sofferenze.

Giungere insomma a leggere il giornale con l’occhio dello Spirito e col cuore compassionevole di un Bodhisattva [1].

 

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Dio Immortale dentro di me, ispirami col Tuo Amore infinito, guidami con la Tua Onniscienza, opera in me e attraverso di me con la Tua Onnipotenza.

 

 

Fonti

Pagine tratte da Ultra (periodico della Lega Teosofica Indipendente con redazione a Roma, diretto da Decio Calvari, Segretario Generale della Società Teosofica Italiana negli anni 1904-1905), anno 1925, n. 4, pag. 44-47 e n. 5-6, pag. 79-82; anno 1926, n. 1, pag. 46-48 e n. 2, pag. 49-51.


 

[1] I Bodhisattva sono coloro che hanno rinunciato a divenire Buddha, ad entrare nella beatitudine del Nirvāņa, per restare nel mondo a lavorare per il bene dell’umanità per lunghi cicli, finché non sarà tutta liberata e redenta.

 

Roberto Assagioli


 

tratto dal sito ufficiale della Società teosofica Italiana:

www.teosofica.org